I met Alfredo Riedel in the summer of 1990, i was almost 24 years old, he was almost 65. Thanks to the generosity of Lorenzo Dal Ri, I could bring the animal bones assemblage I worked on for my thesis degree, which was hosted at the civic Museum of Rovereto, to the Soprintendenza in Bolzano, so that Riedel could study it.
I remember that at the beginning, the idea was me helping him with his work: opening for him some bags, writing the stratigraphic data and so on. After a few hours though, looking at him working, made growing in me a passion for a discipline, zooarchaeology, that, since those times accompanies me and helps me in understanding the ancient humanity.
Saying that Alfredo Riedel has been my mentor is a self-evident truth and what is surprising is that he also inspired me as a teacher even though Riedel didn’t consider, for a long time, this aspect as something that belonged to him. It can be easily said in fact that Riedel worked alone for a long time, at the beginning under the direction and support of Piero Leonardi at the University of Padua, where Riedel wrote his first papers, and then after his return from Africa, where he worked for a long time as a geologist, supported by the friendship and hospitality of Benedetto Sala in Ferrara, Enrich Pucher in Vienna, Bernardino Bagolini, Michele Lanzingher, Giampaolo Dalmeri in Trento, Pasa, Aspes, Fasani and Salzani in Verona, Renato Mezzena in Trieste, Lorenzo Dal Ri in Bolzano and a lot more. Despite the several contacts he had with many European zooarchaeologists, his work was still the work of a solitary researcher. Inch by inch though, and perhaps in contrast with Alfredo’s reserved and shy disposition, he accepted to pass on his wide knowledge to many young researchers, which were approaching him for absorbing anything they could and, in the process, fell in love not just with Alfredo the researcher but also with Alfredo the man.
I would like to remember friends and colleagues such as Jasmine Rizzi, Stefano Marconi and Francesco Boschin. The latter, the youngest of Alfredo’s students, has been close to him until the very end, with a sensitivity and a tact that I cannot really describe. I wanted to say that despite Alfredo didn’t have a family, in the last few years his family were represented by Francesco and his parents in addition to Minah, Alfredo’s Moroccan care-taker. We are all grateful to them for all they have done for Alfredo, for having given him the attentions and the affection that, in this sad moment, all the Italian and European community of zooarchaeologists attributes him with respect and gratitude.
In 1995 Alfredo helped me in establishing, at the Civic Museum of Rovereto, a zooarchaeology lab, which is still very active thanks to the attentions of Franco Finotti, Barbara Maurina and Stefano Marconi. Several times during the year, Alfredo used to leave his windy and marvellous city for coming to work on the snowy mountains of Trentino, mountains that he studied so well and for such a long time with a zooarchaeological interest. We used to sit in my office, one close to the other. I was too young for being able to stay still, often taken by basic physical needs, Alfredo on the other side, as a roman soldier, insensitive to thirst and hunger, forgetful of the late hour reached, agreed to leave the office just only after many hours, often forced by the insistence of the Museum keeper. In his work as in his walk, he had a rate: slow but steady. And then, with intermittence, he used to stop for telling me something that just came to his mind, such as a comment on a paper or a book.
Alfredo was a deeply educated person but at the same time he was modest, he knew too much of life for not having a clear idea of it.
Among the most beautiful memories of my life there are the evening walks taken together on the seaside in Trieste. We used to stop in front of the sea, Alfredo used to talk about the history of his city, and his soft voice used to join the sound of the wind… and I felt as I was living a great privilege.
In the last years of his life, in those moments in which Alfredo felt the need of opening his chest, he complained about the fact that he didn’t have a son. I didn’t know what to tell him, a part from the fact that he has been the scientific father of entire generations of researchers, all inspired by his work and his life. I used to say also that the Italian zooarchaeology identifies in him a founder father, who has given to the discipline a present, a future and a respectable tradition, in a time in which the lessons given by Strobel and Canestrini were dried up.
Ciao Alfredo, I see you ransacking in your bag, grumbling, as you were used to do, looking for something that you were never able to find. It is a funny image and I want to remember you like this. Now, it is our turn to continue to look for something that we don’t find. Without you Alfredo is going to be more difficult, but this is the burden that we have to bear. A burden though, which is made more bearable after having met and loved you.
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Ho conosciuto Alfredo Riedel nell’estate del 1990, avevo quasi 24 anni, lui quasi 65. Grazie alla generosità di Lorenzo Dal Ri avevo potuto portare in Soprintendenza a Bolzano la fauna del sito della mia tesi di laurea, che si conservava al Museo Civico di Rovereto, perché Riedel la studiasse. All’inizio mi pare di ricordare che l’idea fosse quella di aiutarlo un po’ nel lavoro, aprirgli i sacchetti, scrivere i biglietti con i dati stratigrafici, cose così. Dopo poche ore, però, osservarlo al lavoro fece crescere in me la passione per uno studio, quello dell’archeozoologia, che da allora mi accompagna, e mi sostiene nell’intelligenza dell’umanità antica. Dire che Alfredo Riedel è stato il mio maestro per un verso è un’ovvietà, per l’altro coincide con qualcosa, cioè l’insegnamento agli altri, che per molto tempo non gli appartenne come qualcosa di intimamente caratterizzante. Si può ben dire infatti che Riedel lavorò a lungo da solo, dapprima sotto la direzione e l’incitamento di Piero Leonardi all’Università di Padova, dove scrisse i suoi primi lavori nella seconda metà degli anni quaranta del secolo scorso, e poi negli anni settanta, al ritorno dall’Africa dove lungamente operò come geologo, sostenuto dall’amicizia e dall’ospitalità di Benedetto Sala a Ferrara, di Erich Pucher a Vienna, di Bernardino Bagolini, Michele Lanzingher, Giampaolo Dalmeri a Trento, di Pasa, Aspes, Fasani e Salzani a Verona, di Renato Mezzena a Trieste, del già ricordato Lorenzo Dal Ri a Bolzano e di altri. Ma il suo lavoro era e restava quello di uno studioso solitario, per quanto provvisto di numerose aderenze anche all’estero, e in corrispondenza con i principali studiosi di archeozoologia a livello europeo. A poco a poco, però, e forse in contrasto con un carattere schivo e riservato, accettò di trasmettere le sue vaste e profonde conoscenze a numerosi giovani che gli si avvicinarono per apprendere da lui tutto ciò che poterono, e che si affezionarono all’uomo oltre che allo studioso. Voglio ricordare qui in particolare gli amici e colleghi Stefano Marconi, Jasmine Rizzi, e Francesco Boschin. Quest’ultimo, il più giovane dei suoi allievi, gli è stato vicino fino all’ultimo momento con una sensibilità e una delicatezza che la commozione e l’ammirazione per questo giovane uomo, nonché il pudore, mi impediscono di descrivere adeguatamente. Ma volevo dirlo, perché è vero che Alfredo non aveva famiglia, ormai, ma la sua famiglia negli ultimi anni sono stati Francesco e i suoi genitori, e inoltre Minah, la sua badante di nazionalità marocchina, cui siamo grati per ciò che hanno fatto per lui, quotidianamente donandogli quell’affetto e quell’attenzione che tutta la comunità degli archeozoologi italiani ed europei con rispetto e riconoscenza gli tributano in quest’ora così triste.
Nel 1995 Alfredo mi aiutò a fondare al Museo Civico di Rovereto un laboratorio di archeozoologia ancora oggi attivo grazie alla intelligente cura di Franco Finotti, Barbara Maurina e Stefano Marconi. Più volte all’anno lasciava la sua ventosa, meravigliosa città aperta al lucente Adriatico per annidarsi tra le nevose montagne del Trentino che egli studiò così bene e a lungo dal punto di vista archeozoologico. Sedevamo ad un tavolo nel mio studio, uno accanto all’altro, io troppo giovane per riuscire a stare troppo a lungo fermo, e molestato oltretutto da banali, elementari bisogni fisici; lui, invece, insensibile come un antico soldato romano ai morsi della fame e della sete, e dimentico dell’ora che intanto si era fatta, dopo molte ore accettava di sloggiare, ma solamente dietro le non sempre timide insistenze del custode del Museo. Nel lavoro, così come nell’andatura, aveva un suo passo: lento, ma continuo. Poi, ad intermittenza, si fermava per parlarti di una cosa che gli era venuta in mente, per commentare un articolo di giornale, o un libro. Riedel era persona coltissima e nondimeno umile, ma sapeva troppo della vita per non averne un’idea ben chiara. Fervente cattolico, in politica era un realista: il mio idealismo progressista è stato spesso messo in crisi dalla concreta intelligenza del mondo che traspariva dai suoi giudizi, non di rado tranchant. Quando a molti di noi, in un passato abbastanza recente, sembrava di vivere in un regime (non avevamo, peraltro, tutti i torti), Riedel ricordava ben altri regimi che egli aveva conosciuto e subito in gioventù e, poi, nelle sue peregrinazioni africane, e qualche risentito dubbio sapeva instillarlo.
Tra i ricordi più belli della mia vita ci sono le passeggiate serali fatte insieme a lui sul lungomare di Trieste, al molo Audace, le spalle a Piazza Unità, a San Giusto, alle alture del Carso, sotto volte celesti così seducenti e stellate da oscurare le ville accese sull’orlo del golfo. Ci fermavamo in faccia al mare, Alfredo parlava della storia della sua città e la sua voce sempre così flebile si mescolava ad un certo punto al soffio benigno della brezza marina, finché questo, crescendo, la sormontava, assorbendola, e a me pareva davvero di vivere il più grande dei privilegi. A Trieste avevamo sempre appuntamento al Caffè Vienna, dove si sedeva a leggere un fascio di quotidiani, quasi tutti in lingue straniere, prima che salissimo a lavorare nella sua casa di Via Diaz, che era tappezzata di libri e invasa di voluminose pile di appunti manoscritti, lettere, estratti, riviste scientifiche, letture di una vita. Che prediligesse il Caffè Vienna mi è sempre sembrato ovvio: egli aveva un aspetto e una cultura mitteleuropei (considerava il tedesco una madrelingua, ma con pochi eletti parlava triestino), e suppongo che con lui se ne sia andato l’ultimo suddito di Sua Altezza Imperial-regia. Il suo snobismo, se ne aveva, era tutto qui, nel non sentirsi in obbligo di apparire “moderno”, stando al mondo con una serietà e una dignità non priva di sense of humour e autoironia.
Negli ultimi anni della sua vita, nei momenti in cui sentiva di potersi più profondamente aprire agli altri, si rammaricava di non avere avuto un figlio. Non sapevo cosa rispondergli, se non che era stato padre scientifico di intere generazioni di studiosi che a lui e al suo lavoro si sono ispirati, e che l’archeozoologia italiana riconosce in lui quel padre fondatore che le ha dato un presente, un futuro, e una tradizione rispettabile, dopo l’isterilirsi e l’esaurirsi della importante lezione tardo-ottocentesca degli Strobel e dei Canestrini.
Ciao Alfredo, ti rivedo rovistare nella borsa come facevi sempre alla ricerca di qualcosa che non trovavi, sbuffando. È una immagine divertente, ti ricordo così. Ora tocca a noi continuare a cercare qualcosa che non troviamo, senza di te è più difficile, ma questo è il peso che tocca a chi resta, reso dopotutto più lieve dall’averti conosciuto e amato.
Umberto Tecchiati
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