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ITALIAN-STUDIES  July 2002

ITALIAN-STUDIES July 2002

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Ricordo di p. Giovanni Pozzi (2)

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Sergio Bozzola <[log in to unmask]>

Reply-To:

Scholarly discussions in any field of Italian studies <[log in to unmask]>

Date:

Mon, 29 Jul 2002 21:38:48 +0200

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italian-studies: Scholarly discussions in any field of Italian studies

Ricevo dal "Lettere italiane" e giro alla lista.
S.B.

-----Messaggio originale-----
Da: Emilio Speciale [mailto:[log in to unmask]]
Inviato: mercoledì 24 luglio 2002 15.12
A: LI
Oggetto: Ricordo di p. Giovanni Pozzi (2)


Ricordo di p. Giovanni Pozzi

1. Ottavio Besomi: Un'attenzione per i fatti che contano
2. Pietro Gibellini: Pozzi, Dio & filologia
3. Raffaele Manica: La lingua tra la rosa e il cielo
4. Vittorio Volpi: la Hypnerotomachia Poliphili

_/_/_/

Corriere del Ticino
La scomparsa di padre Giovanni Pozzi

Un'attenzione per i fatti che contano

Ottavio Besomi


Nella poca lucidità che la commozione produce, mi viene alla mente in primo
luogo, non so perché, l'ultima intervista rilasciata da Padre Pozzi a
Repubblica: risposte rapide, fulminanti, nervose, su un tono di provocazione
quasi irritata; nel chiedermene la ragione, mi sono immaginato una risposta
che ora ritengo valida: era l'urgenza di respingere l'evidente leggerezza
dell'interrogante, per andare all'essenziale. Con lo stesso atteggiamento lo
vidi nell'ultimo incontro, in una commissione cantonale per l'edizione di
testi letterari: post factum, mi pare di capire che volesse stringere,
andare al centro delle cose, evitare la dispersione, proprio come se il
tempo fosse per scadere. Era del resto, questo, il suo abito comune:
un'applicazione che non conosce soste al lavoro intensivo, condotto con
grande lucidità e tenacia, con severità, esercitata tanto su di sé quanto su
chi gli stava accanto, studente o studioso che fosse. E ciò sia nel rapporto
individuale, sia nel rapporto di gruppo: bene sa chi ebbe la fortuna di
partecipare ai cosidetti «incontri del Bigorio»: seminari informali di
lavoro intensissimo, dove lo studioso affermato si affiancava allo studente
appena iniziato su temi di ricerca anche comuni. Una formula ammirata dai
colleghi italiani, che portò a operare nel laboratorio comune Carlo
Dionisotti, Dante Isella, Maria Corti, Domenico De Robertis, Cesare Segre,
Franco Gavazzeni, Guglielmo Gorni e altri: il meglio dell'italianistica del
momento. Un lavoro di grande intelligenza e assiduità, quello di Pozzi, che
si riflette nella varietà e nella quantità dei suoi scritti, su temi e tempi
diversi della letteratura italiana, e non solo. Per capire l'estensione dei
campi di indagine applicata anche a una geografia locale, basti pensare al
recente volume sugli ex voto nel Ticino, in cui la materia della devozione e
dell'arte popolari è trattata con lo stesso rigore e la dignità con cui
Pozzi ha studiato temi e topoi di testi illustri. E viene subito da pensare,
analogamente insieme, ai suoi saggi sul linguaggio assoluto dei mistici e a
quelli dedicati a come pregava la gente. Il distacco dalle cose locali
ticinesi che gli studenti friburghesi della prima generazione avevano
creduto di vedere in lui, in realtà si è venuto via via riducendo: e sempre
la sua attenzione è andata a temi che investono fatti che contano. Gli
ultimi suoi impegni civili, applicati all'iniziativa culturale sopra
ricordata, e al restauro della Biblioteca cantonale, dicono bene la validità
delle scelte. Credo di poter definire in sintesi il magistero di padre Pozzi
ripetendo qui la dedica a lui fatta di un recentissimo volume galileiano
curato da Mario Helbing e da me: «al maestro di filologia e di critica,
innovatore degli studi letterari nella Svizzera italiana e restauratore di
testi secenteschi». Al centro del trinomio, sta il riconoscimento degli
stimoli a ricerche di italianistica che Giovanni Pozzi ha saputo dare, nella
scuola friburghese e fuori, e di cui sono stati destinatari, in primis, gli
studenti della Svizzera italiana. La rinascita degli studi di filologia,
avviata da Gianfranco Contini a Friburgo, ha trovato in lui un promotore di
spicco: lavori da lui suggeriti e guidati, usciti a stampa nelle sedi
italiane più prestigiose, in collane e riviste scientifiche, hanno immesso
la Svizzera italiana nel circuito vivo delle ricerca, collocandola nel
numero delle province culturalmente più attive. E non va dimenticata la
ricchezza da lui immessa nella scuola ticinese, attraverso l'apporto di suoi
allievi e con una saggistica destinata a una didattica di alto livello. Il
Seicento visitato da Pozzi, e fatto visitare da altri, ha permesso un
ricupero di zone di cultura e di opere che la corrente censoria dell'Arcadia
aveva per secoli relegato nel purgatorio, se non nell'inferno del mondo
letterario. Di questo, le storie letterarie più recenti, e la critica più
aggiornata, gli riconoscono ampio merito. Il magistero di Pozzi nell'ambito
della filologia e della critica (a lungo esercitato attraverso la parola
orale e scritta), trova riscontro in decine e decine di titoli, in riviste e
in volumi. Con strumenti rigorosi della filologia, sempre ancorando la
pagina a contesti di storia culturale, valutando i prodotti artistici
nell'ambito dei generi (ricuperati dopo il bando decretato dalla scuola
crociana), con strumenti nuovi di analisi linguistica, stilistica e
strutturale, si è mosso su un terreno ampissimo, da testi medioevali latini
e volgari, dal Cantico delle creature di San Francesco, fino a incursioni
nel Novecento ben calibrate, passando attraverso i classici e i minori:
perché nel panorama culturale non solo le cime contano, ma anche le colline,
le piane e pure i luoghi depressi. Lo collego mentalmente ad altri maestri,
Gianfranco Contini, Carlo Dionisotti, Giuseppe Billanovich: il legame di
amicizia e di studio che li ha uniti è stato per molti di noi,
svizzeroitaliani della mia generazione e delle successive, un punto di
riferimento comune. Grazie a lui, i grandi nomi hanno cessato di essere
indicazioni bibliografiche per diventare interlocutori più esperti con cui
conversare su nostri lavori in corso. Il mondo della cultura, dell'Italia e
non solo nostro locale, si è fatto più povero; ma il vero magistero non
muore: opera nella mente degli allievi, è affidato al libro, vive nella
Biblioteca dei frati, creatura nutrita e curata fino all'ultimo da Giovanni
Pozzi, cosciente -come ha spesso detto e scritto- che le idee hanno bisogno
del supporto materiale per trasmettere valori e quindi edificare.

21/07/2002

 _/_/_/

 Avvenire

Domenica 21 luglio 2002

Pozzi, Dio & filologia

Il grande italianista è morto ieri a Lugano: come nessun altro dominava
letteratura profana e sacra

di Pietro Gibellini

Per spiegare il vuoto che la scomparsa di Giovanni Pozzi (morto ieri all¹età
di 79 anni a Lugano, dove martedì mattina si terranno i funerali, alle 10
nel convento dei cappuccini) lascia nella nostra cultura, basta dire che
nessun italianista dominava come lui, parimenti, la letteratura profana e
quella sacra: due campi che vengono di solito frequentati separatamente da
studiosi pratici dell¹uno quanto ignari, se non pregiudizialmente avversi,
all¹altro. Padre Giovanni da Locarno, come si firmava nei suoi primi studi,
era un cappuccino: un bell¹uomo, dalla barba curata che preferiva gli abiti
comuni al saio, nei suoi frequenti spostamenti fra biblioteche e università,
da Friburgo, dove aveva assimilato il magistero filologico di Gianfranco
Contini e dove tenne la cattedra di letteratura italiana, alla Milano
dell¹altro maestro, Giuseppe Billanovich, alla Zurigo del fraterno amico
Dante Isella. Del cappuccino manzoniano, Pozzi aveva alcuni caratteri:
l¹attenzione per gli umili, che aveva fatto di lui, uomo colto e raffinato,
un formidabile studioso della cultura popolare, fra ex-voto e devozione, e
l¹energia combattiva sui temi che lo appassionavano: la filologia (si pensi
alla polemica sull¹identificazione dell¹autore del Polifilo, da lui
riconosciuto in un frate veneto e non già in un nobile laziale) e
l¹ecumenismo (valore cui era sensibile un ticinese che si era trovato a
operare a Friburgo, cuneo cattolico fra cantoni protestanti). I primi lavori
di rilievo, Pozzi li compie nell¹area dell¹umanesimo veneto con gli studi su
Ermolao Barbaro e su quel Polifilo che pareva fatto apposta per assecondare
la sua passione per il rapporto fra parola e figura. Questo rapporto è
esaltato nell¹età barocca, una stagione che Pozzi esplora, sottraendola ai
pregiudizi negativi ancora imperanti. Si pensi alla poderosa edizione
critica e commentata dell¹Adone di Giambattista Marino, gioiello dei
"Classici Mondadori", uscito nel 1976 grazie anche a una équipe di allievi
guidati con mano magistrale e ferrea. Oltre a identificare innumerevoli echi
e fonti in testi completamente dimenticati, Pozzi rivoluzionava
l¹interpretazione del poema, liquidato fino ad allora come sfoggio di
virtuosismo artificioso, vuoto e sensuale. Lo stesso tema mitologico
dell¹amore fra Venere, Marte, che tra le braccia della dea depone le armi, e
Adone, obbedisce per Pozzi a un coraggioso progetto pacifista. Assolvendo
Marino dall¹accusa di essere vuotamente retorico, Pozzi spezza una lancia
anche a favore della retorica, intesa come comprensione profonda della
corrispondenza fra parole e cose: ecco dunque partirsi dal celebre elogio
della rosa mariniano «rosa, riso d¹amor, del ciel fattura», la ricerca
tematologica inaugurata appunto dall¹aureo volumetto La rosa in mano al
professore (1974), che segue le variazioni del motivo, di poeta in poeta, di
età in età, e sfocia nel capitolo sulla tòpica nella Letteratura italiana
Einaudi, cui il professore friburghese pure rimproverava con la sua
intransigenza di aver arrestato la trattazione degli scrittori religiosi
alle soglie della modernità. Sono gli anni in cui irrompe sulla scena dei
nostri studi la critica formale, con le sue virtù e i suoi eccessi. Padre
Pozzi vi si getta con decisione, vedendovi una rinascita della retorica.
Ricordo in un volumetto di Analisi di testo per gli insegnanti, una sua
penetrante lettura della Preghiera di Carlo Porta, in cui dalla struttura
chiastica e dalle figure d¹inversione si coglie l¹essenza del testo, e cioè
il ribaltamento in bestemmia della finta devozione della dama. Dal Barocco
prende le mosse anche l¹altra linea di ricerca di padre Pozzi, quella
sull¹iconologia letteraria, di cui si nutre La parola dipinta, il volume con
il quale nel 1981 la casa editrice Adelphi rivela ai suoi esigenti lettori
questa affascinante personalità di studioso: analizzando una natura morta
con rose e gigli che era apparsa enigmatica a illustri critici d¹arte,
l¹autore rivela i segreti di un¹allegoria mariana; seguendo le diverse
grafie di libri e cartigli fra le mani dei santi, egli svela una precisa
gerarchia di auctoritates sacre e profane; indagando calligrammi secenteschi
di chierici creduti oziosi, scopre gli incunaboli della poesia visiva
d¹avanguardia, o della Poesia per gioco, come intitola un volume del 1984.
Ma non è solo per gioco, avverte padre Pozzi, che l¹uomo scrive: un altro
grande merito dello studioso è aver aggregato alla sfera della letteratura
più alta e pregnante le Scrittrici mistiche (antologizzate per Marietti -
assieme a Claudio Leonardi - nel 1996), da Maria Maddalena de¹ Pazzi ad
Angela da Foligno: una scrittura in cui sensi e spirito si intrecciano
inestricabilmente, così come sacro e profano diventano le due facce di
un¹unica medaglia, che devono incessantemente alternarsi: è il senso dei
suoi libri più recenti, eloquenti fin dal titolo: Alternatim (Adelphi) e
Grammatica e retorica dei sensi (Vita e pensiero). Mi viene spontaneo
chiudere questo ricordo con l¹affascinante analisi di un¹Annunciazione
quattrocentesca contenuta nel volume Sull¹orlo del visibile parlare (Adelphi
1993): nei due cartigli che dalla bocca dell¹angelo si dirigono verso il
capo e il grembo di Maria, Pozzi coglie il senso teologico della doppia
accettazione della maternità, prima dell¹intelletto e poi del corpo. Ma
mentre il saluto dell¹angelo è leggibile dagli uomini, la risposta di Maria
ha le lettere capovolte, per un Lettore collocato nell¹alto dei cieli.


 _/_/_/

il manifesto
23.07.2002

La lingua tra la rosa e il cielo

La scomparsa di padre Giovanni Pozzi. Allievo di Gianfranco Contini, e di
Giuseppe Billanovich, era nato a Locarno nel 1923 e sino al 1988 era stato
titolare della cattedra di letteratura italiana e filologia romanza a
Friburgo. Poi era tornato alla casa dei frati cappuccini di Lugano. Studioso
delle mistiche, italianista, grande erudito, ha rappresentato una ammirevole
sintesi tra tradizione e innovazione

RAFFAELE MANICA

Sempre, si sa, ripercorrendoli a memoria, i libri della nostra formazione ci
risuonano in maniera diversa prima o dopo la morte del loro autore. Come se,
con la scomparsa dell'artefice e le loro pagine, i libri mutassero voce. Da
sabato scorso cominciano a rispondere con una voce diversa alle nostre
chiamate i libri di Giovanni Pozzi, il grandissimo studioso che ci ha
lasciati alla vigilia dei suoi 80 anni. Svizzero italiano, di Locarno,
dov'era nato nel 1923, Pozzi aveva nella voce e perfino nella lingua
qualcosa che lo faceva estraneo alla cultura della quale fu conoscitore
peritissimo. Perfino certi giri di frase risuonavano in lui leggermente
straniati o lessicalmente desueti, tanto da diventare preziosi. In più, lo
studioso insigne della civiltà italiana che ha preso congedo da questa terra
era un cappuccino. E l'immagine di un cappuccino allievo di Gianfranco
Contini era talmente originale da non richiedere altri elementi di
stravaganza. Eppure, se a questo ritratto serve altro, un paio di titoli
diranno da soli quanto padre Pozzi, come da tutti era chiamato, fosse
accattivante, nonostante la severità e talvolta l'arduo svolgersi delle sue
ricerche e dei suoi libri. Si tratta di due titoli distanziati di un
decennio, 1974 e 1984, l'uno uscito per le edizioni dell'Università di
Friburgo, dove Pozzi insegnò dal 1960, l'altro edito dal Mulino. Il primo si
intitolava La rosa in mano al professore, l'altro Poesia per gioco.
Prontuario di figure artificiose.

Titolo di innegabile forza attrattiva, anzi seduttivo, La rosa in mano al
professore era uno smilzo libretto dalla copertina azzurrina e dai caratteri
nitidissimi, nato sulla scia di due grandi figure critiche, lette come su
una scena di teatro. Giacomo de Benedetti, in un suo famoso saggio, aveva
scritto che il giovane Francesco de Santis, poco maggiore in età dei suoi
studenti, mentre imbastiva le lezioni che sarebbero servite alla storia, si
muoveva attraverso i secoli fondamentali della letteratura italiana con una
rosa in mano, percorrendo così la strada che va dalla rosa di Cielo d'Alcamo
verso la rosa ariostesca e fino alla rosa del Marino («Rosa, riso d'amor»).
L'immagine era strepitosa, mobile, incantatoria. Pozzi prese spunto di lì e,
approntato il dossier della rosa, che figurava in fondo al libro come
allegato, finisse ad analizzarne il valore figurato, letterale, iconico
delle singole parti di testo e della rosa medesima, che era anche un mito
dantesco (dalla selva oscura alla candida rosa) e un tema mariano. Il
libretto, preso da tante componenti, era cristallino, rinunciava alla facile
ermeneutica e interpretava i fatti con un rigore asciutto che era il fascino
stesso della critica di Pozzi. Toccò comprarlo per corrispondenza e
studiarne la densità da breve trattato di chimica o fisica delle figure
letterarie, dal bocciolo al fiore aperto. L'altro titolo, Poesia per gioco,
intanto aveva un sottotitolo civettuolo, da manuale hoepliano di pronta
applicazione, Prontuario di figure artificiose, e poi si muoveva attraverso
autori ai confini della grande tradizione letteraria, con attenzione a certe
figure retoriche di confine, quelle in bilico tra la letteratura e
l'enigmistica, tra poesie che sembravano rebus o versi da cruciverba a
schema libero. Pozzi vi riconduceva, mantenendo attenzione ai casi
individuali (nulla gli era più alieno che la generalizzazione) dentro il
sistema fitto di corrispondenze di un'intera ala della civiltà letteraria,
dove spiccava il nome di Rabano Mauro incrociato con un'anagrafe di
semisconosciuti.

Dai due libri risultava evidente come Pozzi fosse in grado di riportare ciò
che comunemente viene percepito come marginalità a un diverso ordine. Ha
scritto Dante Isella - che con Pozzi ha diretto fino all'altro giorno la
collana di classici italiani della Fondazione Astengo - come del padre
cappuccino di Friburgo l'influsso di Contini sia riscontrabile «nel
presupposto fondamentale che il passato è sempre una costruzione del
presente». Il rapporto di Pozzi con tante tradizioni letterarie
misconosciute o del tutto sconosciute è la dimostrazione teorematica di tale
affermazione, perché è soltanto un rinnovato interesse a risvegliare i segni
sopiti del passato.

L'altro aspetto del magistero di Contini fu ovviamente la pratica
filologica. Pozzi fu coinvolto nel monumento dei Poeti del Duecento, ma nel
1954 aveva pubblicato il primo frutto del rapporto di discepolato con
Contini, il Saggio sull'oratoria sacra nel Seicento e semplificato sul padre
Emmanuele Orchi (pubblicato dall'Istituto di studi francescani): volume dove
lo studio dello stile e della retorica predicatoria colto nel fittume di un
Quaresimale preludeva già al futuro magistrale commento alle Dicerie
mariniane. Per il versante filologico fu decisivo in maniera non minore il
rapporto con un altro maestro di filologia, Giuseppe Billanovich, quasi il
corrispettivo di Contini nell'ambito complementare alla filologia romanza,
gli studi medievali e umanistici.

Dall'incontro con Contini e Billanovich si generò nel 1964 l'edizione della
Hypnerotomachia Poliphili da Pozzi attribuita a Francesco Colonna, con
commento e biografia e, più tardi, a partire dal 1973, l'edizione delle
Castigationes Plinianae di Ermolao Barbaro. Questi due volumi sono,
nell'itinerario di Pozzi, quelli più riccamente nutriti di un'erudizione di
tipo latamente tradizionale, benché nelle pagine di commento si possa vedere
quanto fosse in movimento sotto il repertorio dei richiami al passato e
sotto le tessere con le quali, fonte dopo fonte, si andavano intrecciando la
fisionomia e la formazione di autori finalmente non più fermi al passato ma
rimessi in marcia verso forme di conoscenza che li sottraevano
all'immobilità della mera erudizione e al gusto meramente antiquario. Autori
verso i quali il rischio sarebbe stato di vederli sfarinare una volta
sollevata la teca che li aveva sottratti allo scorrere del tempo. Ma Pozzi
sapeva bene di quanta pietà abbisogni colui che lavora attorno e dentro ad
un erbario (così recitava l'epilogo della Rosa in mano al professore).

Giovanni Pozzi da Locarno, come appariva il suo nome sulla copertina del
primo libro, è stato negli studi di italianistica, dunque, una ammirevole
sintesi del rapporto che intercorre tra tradizione e innovazione. Se la
tradizione era in lui sostanzialmente il dato erudito, riscontrabile nelle
conoscenze delle letterature classiche e dell'umanesimo, e se tutto ciò
insieme funzionava nella sua opera come repertorio mobile di fonti, messo al
servizio dei secoli più recenti, in particolare il Seicento, tali fonti
erano usate come ricognizione memoriale dentro l'officina degli autori
studiati. Ma questa concezione di un sapere più antico veniva utilizzata in
una maniera che andava oltre l'erudizione. Aggiornatissimo nel campo degli
strumenti critici, il lavoro di padre Pozzi sulle fonti era incentrato sulla
funzionalità del rapporto fra i testi. Insomma la sua antichità era
un'antichità che si attivava nel moderno e dal moderno era attirata, nel
rapporto stretto tra sistema e struttura.

Esemplare, di tutto ciò, l'ampia e profonda messe di studi intorno
all'enciclopedia del poetabile, l'opera di Gianbattista Marino,
probabilmente da considerarsi come l'autore centrale negli studi pozziani.
Le edizioni commentate delle Dicerie sacre e La strage degli innocenti
(uscita da Einaudi nella collana dei classici annotati diretta da Contini
nel 1960) e dell'Adone (Mondadori 1976 poi in edizione rivista Adelphi 1988)
sono una lezione di metodo e di pratica critica fondamentali per chiunque si
avvicini non soltanto al Marino o alla poesia del Seicento, ma alla
letteratura italiana in genere. Le mirabili introduzioni ai due volumi (tra
le pagine dell'uno e dell'altro corre più di un quindicennio) sono veri e
propri libri, bilanciati tra rigore teorico e conoscenza storica. In
particolare, per chiunque abbia interesse a come decifrare le forme di
un'opera di narrazione, l'introduzione all'Adone risparmierà la fatica di
migliaia di pagine di narratologia. Le questioni fondamentali della scienza
delle narrazioni (se così la si può chiamare) sono riportati ai tratti
essenziali e necessari, sfrondate dalle ridondanze della teoria e messe
direttamente a confronto con l'argomento sul quale ci si esercita.

In più, l'edizione dell'Adone era accompagnata da un intero volume di gran
mole dedicato al commento: i motivi letterari e figurativi, la retorica e
l'articolazione del mondo di uno dei grandi poemi della nostra letteratura
erano sperimentati in laboratorio, dissezionati, messi a confronto con una
ferratezza che si potrebbe definire argomentativa e insieme dimostrativa,
giacché le regole della retorica classica erano entrate nelle vene di padre
Pozzi, costituivano quasi il suo modo di atteggiarsi verso il mondo. Un
modello.

Un modello che poteva sembrare l'opera di un navigatore solitario dentro il
mare aperto degli studi letterari. Invece padre Pozzi solitario non era.
Accompagnava la sua fatica attorno all'Adone una lista di collaboratori: da
studenti appena congedati dall'Università di Friburgo fino ai colleghi più
giovani e nati dalla sua scuola. Ma poi era Pozzi a riportare ad unità e ad
un'inconfondibile linea di stile i materiali raccolti e selezionati. Da ciò
si evince anche quanto fosse importante per lui l'aspetto didattico, a
testimonianza del quale resta anche un volumetto di Analisi testuali per
l'insegnamento che, si deve dire, pare pensato per una scuola precisa,
riflessiva e con un tempo indipendente da quello delle umane cose: piuttosto
un'idea o un progetto di scuola che, propriamente, una scuola.

Dove invece si vede Pozzi navigare solitario, uomo che controlla le passioni
e le reazioni nel turbinio delle cose, mettendo a frutto letture
disparatissime, curiosità insaziate e interessi di varietà insondata, è nei
tre imponenti volumi di saggi pubblicati da Adelphi: La parola dipinta
(1981), Sull'orlo del visibile parlare (1993) e Alternatim (1996). Tre
volumi dei quali è impossibile indicare i temi, oscillando essi dal Manzoni
al modo di pregare della gente semplice, dalle leggi che dominano ciò che
chiamiamo silenzio alla tradizione mariana, dall'oralità al linguaggio
mistico, dagli ex voto alla narrativa del Novecento. Si tratta di tre volumi
messi insieme durante lunghissimi anni, distillandoli pagina a pagina e
saltando da un tema a un altro solo all'apparenza lontano. Davvero ci si
vede non tanto come padre Pozzi fosse anche un solitario, ma come la ricerca
sia sempre solitaria quando si spinge verso territori mai o mal battuti. Le
cure solitarie a libri importanti e dimenticati da parte di questo
francescano svizzero mancheranno non soltanto agli studiosi di cose
letterarie. Mancheranno a tutti coloro che sanno come i segni delle civiltà
passino attraverso cunicoli invisibili al primo sguardo, ma che sono l'unico
modo attraverso cui le cose si mettono in contatto. E mancheranno anche a
coloro che, all'uscita dell'edizione e del commento dell'Adone, stavano lì,
strabiliati, a chiedersi come mai, per tanto tempo, quel visibilissimo
poema, tolti pochi, fosse rimasto ai più come un corpo inerte, come mai quel
grande libro, capolavoro di un secolo, di una civiltà, di un modo di
intendere la poesia, fosse stato fermo per quattro secoli in attesa di una
simile curatela (e il caso volle che, poi, ben due edizioni dell'opera
venissero alla luce nello stesso volgere di anni). Infine il cappuccino di
Friburgo mancherà a chi crede che la letteratura e gli studi letterari siano
un modo di dare forma al pensiero, un modo di leggere i fenomeni del mondo
con nitore, rigore e fervore e un modo per riferire della macchina del mondo
con la devota attenzione che sempre merita, quale che sia il giudizio che se
ne dà.

_/_/_/


È da pochi giorni on-line la Hypnerotomachia Poliphili
(http://www.liberliber.it/biblioteca/c/colonna/index.htm) cui ho lavorato
partendo proprio dall'ed. critica curata da Padre Pozzi. L'acribia delle
note e la puntualità del commento sono stati fonte di ammirazione e di
ammaestramento.

Vittorio Volpi Biblioteca di Iseo
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