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Baricco e Ferroni

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Monica <[log in to unmask]>

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Scholarly discussions in any field of Italian studies <[log in to unmask]>

Date:

Thu, 2 Mar 2006 10:13:37 +0000

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italian-studies: Scholarly discussions in any field of Italian studies

Sperando che sia di vostro interesse, vi inoltro il
dibattito tra Baricco e Ferroni apparso sulla
Repubblica di ieri e di oggi. 

Monica Francioso
 

--------------------------------------------------------------------------------------------

 

Cari critici, ho diritto a una vera stroncatura
di ALESSANDRO BARICCO

QUESTO è un articolo che non dovrei scrivere. Lo so.
Me lo dico da me. E lo scrivo. Dunque. La scorsa
settimana, su queste pagine, esce un articolo di
Pietro Citati. Racconta quanto lo ha deliziato
mettersi davanti al televisore e vedere i
pattinatori-ballerini delle Olimpiadi. Lo deliziava a
tal punto - scrive - che "dimenticavo tutto: le noie,
le mediocrità, gli errori della mia vita; dimenticavo
perfino "l'Iliade" di Baricco, e la vasta e
incomprensibile ottusità dei volti di Roberto
Calderoli e di Alfonso Pecoraro Scanio". Io ero lì,
innocente, che mi leggevo con piacere l'esercizio di
stile sull'argomento del giorno e, trac, mi arriva la
coltellata. Va be', dico. E, giusto per mite rivalsa,
lascio l'articolo e vado a leggermi l'Audisio.

Qualche giorno dopo, però, vedo sull'Unità un lungo
articolo di Giulio Ferroni sull'ultimo libro di
Vassalli. Bene, mi dico. Perché mi interessa sapere
cosa fa Vassalli. Malauguratamente, alcuni dei
racconti che ha scritto sono sul rapporto tra gli
uomini e l'automobile.

Mentre leggevo la recensione sentivo che finivamo
pericolosamente in area "Questa storia" (il mio ultimo
romanzo, che parla anche di automobili). Con lo stato
d'animo dell'agnello a Pasqua vado avanti temendo il
peggio. E infatti, puntuale, quel che mi aspettavo
arriva. Al termine di una lunghissima frase in cui si
tessono (credo giustamente) elogi a Vassalli, arriva
una bella parentesi. Neanche una frase, giusto una
parentesi. Dice così: "Che distanza abissale dalla
stucchevole e ammiccante epica automobilistica
dell'ultimo Baricco!". E voilà. Con tanto di punto
esclamativo.


Ora, nessuno è tenuto a saperlo, ma Citati e Ferroni
sono, per il loro curriculum e per altre ragioni per
me più imperscrutabili, due dei più alti e autorevoli
critici letterari del nostro paese. Sono due mandarini
della nostra cultura. Per la cronaca, Citati non ha
mai recensito la mia "Iliade", e Ferroni non ha mai
recensito "Questa storia". Il loro alto contributo
critico sui miei due ultimi libri è racchiuso nelle
due frasette che avete appena letto, seminate a
infarcire articoli che non hanno niente a che vedere
con me.

È un modo di fare che conosco bene, e che è piuttosto
diffuso, tra i mandarini. Si aggirano nel salotto
letterario, incantando il loro uditorio con la
raffinatezza delle loro chiacchiere, e poi, con
un'aria un po' infastidita, lasciano cadere lì che lo
champagne che stanno bevendo sa di piedi. Risatine
complici dell'uditorio, deliziato. Io sarei lo
champagne.

Potrei dire che non me ne frega niente. Ma non è vero.
Mi ferisce poco la gomitata assestata a tradimento, ma
mi offende molto il fatto che sia tutto ciò di cui
sono capaci. Mi sorprende il loro sistematico
sottrarsi al confronto aperto. La critica è il loro
mestiere, santo iddio, che la facciano. Cosa sono
queste battutine trasversali messe lì per raccogliere
l'applauso ottuso dei fedelissimi? Vi fa schifo che
uno adatti l'Iliade per una lettura pubblica e lo
faccia in quel modo? Forse è il caso di dirlo in
maniera un po' più argomentata e profonda, chissà che
ci scappi una riflessione utile sul nostro rapporto
con il passato, chissà che non vi balugini l'idea che
una nuova civiltà sta arrivando, in cui l'uso del
passato non avrà niente a che fare con il vostro
collezionismo raffinato e inutile.

E se trovate così stucchevole un libro che centinaia
di migliaia di italiani si affrettano a leggere, e
decine di paesi nel mondo si prendono la briga di
tradurre, forse è il caso di darsi da fare per
spiegare a tutta questa massa di fessi che si stanno
sbagliando, e che la letteratura è un'altra cosa, e
che a forza di dare ascolto a gente come me si finirà
tutti in un mondo di illetterati dominati dal cinema e
dalla televisione, un mondo in cui intelligenze come
quelle di Citati e Ferroni faranno fatica a trovare
uno stipendio per campare.

Si dirà che è un diritto dei critici scegliersi i
libri di cui scrivere. E che anche il silenzio è un
giudizio. E' vero. Ma non è completamente vero. Lo so
che per persone intelligenti e colte come Citati e
Ferroni i miei libri stanno alla letteratura come il
fast-food alla cucina francese, o come la pornografia
all'erotismo. Per usare una frase di Vonnegut che mi
fa sempre tanto ridere, mi sa che per loro i miei
libri, nel loro piccolo, stanno facendo alla
letteratura quello che l'Unione Sovietica ha fatto
alla democrazia (non si riferiva a me, Vonnegut, che
purtroppo non sa nemmeno che esisto).

Ma quale arroganza intellettuale può indurre a pensare
che non sia utile capire una degenerazione del genere,
e magari spiegarla a chi non ha gli strumenti per
comprenderla? Come si fa a non intuire che magari i
miei libri sono poca cosa, ma lì i lettori ci trovano
qualcosa che allude a un'idea differente di libro, di
narrazione scritta, di emozione della lettura? Perché
non provate a pensare che esattamente quello - una
nuova, sgradevole, discutibile idea di piacere
letterario - è il virus che è già in circolo nel
sistema sanguigno dei lettori, e che magari molta
gente avrebbe bisogno da voi che gli spiegaste cos'è
questo impensabile che sta arrivando, e questa
apparente apocalisse che li sta seducendo?

Non sarà per caso che la riflessione nel campo aperto
del futuro vi impaurisce, e che preferite raccogliere
consensi declinando da maestri mappe di un vecchio
mondo che ormai conosciamo a memoria, rifiutandovi di
prendere atto che altri mondi sono stati scoperti, e
la gente già ci sta vivendo? Se quei mondi vi fanno
ribrezzo, e la migrazione massiccia verso di loro vi
scandalizza, non sarebbe esattamente vostro degnissimo
compito il dirlo? Ma dirlo con l'intelligenza e la
sapienza che la gente vi riconosce, non con quelle
battutine, please.

Per quello che ne capisco, i miei libri saranno presto
dimenticati, e andrà già bene se rimarrà qualche
memoria di loro per i film che ci avranno girato su.
Così va il mondo. E comunque, lo so, i grandi
scrittori, oggi, sono altri. Ma ho abbastanza libri e
lettori alle spalle per poter pretendere dalla critica
la semplice osservanza di comportamenti civili. Lo
dico nel modo più semplice e mite possibile: o avete
il coraggio e la capacità di occuparvi seriamente dei
miei libri o lasciateli perdere e tacete. Le battute
da applauso non fanno fare una bella figura a me, ma
neanche a voi.
Ecco fatto. Quel che avevo da dire l'ho detto.

Adesso vi dico cosa avrei dovuto fare, secondo il
galateo perverso del mio mondo, invece che scrivere
questo articolo. Avrei dovuto stare zitto (magari
distraendomi un po' ripassando il mio estratto conto,
come sempre mi suggerisce, in occasioni come queste,
qualche giovane scrittore meno fortunato di me), e
lasciar passare un po' di tempo. Poi un giorno, magari
facendo un reportage su, che ne so, il Kansas,
staccare lì una frasetta tipo "questi rettilinei nella
pianura, interminabili e pallosi come un articolo di
Citati". Il mio pubblico avrebbe gradito. Poi, un
mesetto dopo, che so, andavo a vedere la finale di
baseball negli Stati Uniti, e avrei sicuramente
trovato il modo di chiosare, in margine, che lì si
beve solo birra analcolica, "triste e inutile come una
recensione di Ferroni". Risatine compiacenti. Pari e
patta. E' così che si fa da noi. Pensate che animali
siamo, noi intellettuali, e che raffinata lotta per la
vita affrontiamo ogni giorno nella dorata giungla
delle lettere...

Purtroppo però non è andata così. Il fatto è che
l'altro giorno ho visto il film su Truman Capote. Si
impara sempre qualcosa spiando i veri grandi. Lui in
quel film è così orrendo, spregevole, sbagliato,
megalomane, imprudente, indifendibile. Mi ha ricordato
una cosa, che talvolta insegno perfino a scuola, e che
però mi ostino a dimenticare. Che il nostro mestiere
è, innanzitutto, un fatto di passione, cieca,
maleducata, aggressiva e vergognosa. Posa su una
autostima delirante, e su un'incondizionata prevalenza
del talento sulla ragionevolezza e sulle belle
maniere. Se perdi quella prossimità al nocciolo sporco
del tuo gesto, hai perso tutto. Scriverai solo cosette
buone per una recensione di Ferroni (no, scherzo,
davvero, è uno scherzo). Scriverai solo cosette che
non faranno male a nessuno.

Insomma è tutta colpa di quel film su Truman Capote.
D'improvviso mi è sembrato così falso starmene lì,
come una bella statuina, a prendere sberle dal primo
che passa. E' una cosa che non c'entra niente col
mestiere che è il mio. Vedi, se me ne stavo a casa a
vedere Lazio-Roma, oggi eravamo tutti più sereni e
tranquilli. E penosi, of course.

La lettera dell'italianista messo sotto accusa dallo
scrittore
"Vede che le parole dei critici non contano niente?"

 


Caro Baricco, io la recensisco ma lei non mi legge
di GIULIO FERRONI

Caro Baricco, sono davvero pentito, ma non per la
battuta contro Questa storia inserita nell'articolo su
l'Unità del 26 febbraio, sì invece per aver scritto
più volte su di lei, senza che lei abbia avuto la
condiscendenza di leggermi. Ne ho scritto nel
supplemento al Novecento della Storia della
letteratura italiana Garzanti, ne ho scritto
nell'ultimo volume, appena uscito, della Storia e
antologia della letteratura italiana (Mondadori
Università e Einaudi Scuola), e ho addirittura
recensito (nel numero di dicembre della nuova rivista
Giudizio Universale) il romanzo automobilistico Questa
storia, che lei mi rimprovera letteralmente di non
aver recensito.

Qui la differenza è grande: io la leggo, ahimè, senza
ricavarne molto, e lei non legge me e ne ottiene un
successo planetario. Se le sue emozioni e seduzioni
invadono ogni angolo della terra, diffondendo quel
virus apocalittico, quell'avvento dell'impensato con
cui Citati e Ferroni dovrebbero confrontarsi, ciò vale
certamente come un trionfo del made in Italy e
dell'azienda Italia: ma non mi pare un trionfo della
letteratura.

Certo la letteratura è passione, emergenza
dell'imprevisto, conoscenza in profondità di ciò che
non si vede: la sua mi sembra invece una letteratura
patinata, proiettata sull'orizzonte di una
trasgressione pubblicitaria, tra moda e sport... Il
"campo aperto del futuro", che lei oppone a chi
indugia a frequentare le "mappe di un vecchio mondo",
non viene in realtà nemmeno sfiorato dalla "seduzione"
mediatica che promana da quella sua scrittura così
disinvolta, accattivante, appunto "sportiva".


Siamo proprio lontani da quell'abietto ma sconvolgente
Truman Capote a cui è dedicato il film che lei è
andato a vedere invece di Lazio-Roma: io ho visto sia
il film che la partita e ne sono uscito doppiamente
depresso (anche in quanto laziale).

Ma le garantisco che ulteriore motivo di depressione è
stato per me sapere che in occasione
dell'inaugurazione dell'anno accademico della mia
università si è esibito il degnissimo cantante Claudio
Baglioni, ma non per cantare, sì invece per leggere
brani di Aristotele e del suo Novecento: lo vede che
le parole dei critici non contano nulla, nemmeno nelle
università dove essi insegnano, e i rettori affidano
le scelte culturali a ben diversi soggetti? E allora
che se ne può fare di recensioni che del resto nemmeno
ha il tempo di leggere? Contrito, le prometto che non
recensirò i suoi futuri romanzi, e semmai mi limiterò
a qualche frecciatina da "primo che passa".

Un saluto cordiale



		
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