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Re: Erminia's Romantic love (Torquato Tasso's heroin, not me)

From:

"Erminia H. Passannanti" <[log in to unmask]>

Reply-To:

Poetryetc provides a venue for a dialogue relating to poetry and poetics <[log in to unmask]>

Date:

Mon, 13 Aug 2001 18:26:39 +0100

Content-Type:

text/plain

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text/plain (326 lines)

It is interesting indeed, Tom Bell, since - although I asked you to get rid
of my name - the casual association made was indeed remarkable, since it
arose by mere chance and out of ongoing contrasts. You probably know of the
great Italian epic poet, TORQUATO TASSO, (from Sorrento, between Naples
and Salerno, my place of birth), who wrote
the GERUSALEMME LIBERATA.(English Title: the Jerusalem Delivered )
Well, one of the greatest figures of romantic love is indeed that of
Erminia,
the Saracen Princess who escapes from the Turkish champ a desperately in
search for the Tancredi, who she secretly loves:


Daughter of a Saracen king , Erminia believes that the man she loves, the
Christian warrior Tancredi , is wounded; while she looks for him in
disguise, wearing an armature, she meets some shepherdesses who reveal her
the joys of the humble and pacific life. (the two famous episodes,
containing such a romantic figure of love and devotion and which lyricism
is one of the highest moments in Italian epic literature, are:

1. La fuga di Erminia/Erminia's escape (cantos VII)
2. Erminia tra i pastori /Erminia among the shepherds (XIX)


to view two great paintings on this subject of romantic love, heroism and
death
follow these links:


http://www.comune.roma.it/museicapitolini/pinacoteca/visita/sala4_lanfranco.
htm

http://www.pinacotecabologna.it/visita/quadro1.php?n_opera=63

The picture is kept in the Museum of Capodimonte of Naples. The subject is
drawn from the Gerusalemme Liberata by Torquato Tasso.



Tosto disse ella: "Ho conoscenza antica
d'ogn'esser tuo, né già mi voglio apporre.
Non ti celar da me, ch'io sono amica,
ed in tuo pro vorrei la vita esporre.
Erminia son, già di re figlia, e serva
poi di Tancredi un tempo, e tua conserva.
        Ne la dolce prigion due lieti mesi
pietoso prigionier m'avesti in guarda,
e mi servisti in bei modi cortesi.
Ben dessa i' son, ben dessa i' son; riguarda."
Lo scudier, come pria v'ha gli occhi intesi,
la bella faccia a ravvisar non tarda.
"Vivi" ella soggiungea "da me securo:
per questo ciel, per questo sol te 'l giuro.
        Anzi pregar ti vo' che, quando torni,
mi riconduca a la prigion mia cara.
Torbide notti e tenebrosi giorni,
misera, vivo in libertate amara.
E se qui per ispia forse soggiorni,
ti si fa incontro alta fortuna e rara:
saprai da me congiure, e ciò ch'altrove
malagevol sarà che tu ritrove."
        Cosí gli parla, e intanto ei mira e tace;
pensa a l'essempio de la falsa Armida.
"Femina è cosa garrula e fallace:
vòle e disvòle; è folle uom che se 'n fida."
Sí tra sé volge. "Or, se venir ti piace,"
alfin le disse "io ne sarò tua guida.
Sia fermato tra noi questo e conchiuso,
serbisi il parlar d'altro a miglior uso."
        Gli ordini danno di salire in sella
anzi il mover del campo allora allora.
Parte Vafrin dal padiglione, ed ella
si torna a l'altre e alquanto ivi dimora.
Di scherzar fa sembianza e pur favella
del campion novo, e se ne vien poi fora;
viene al loco prescritto e s'accompagna,
ed escon poi del campo a la campagna.
        Già eran giunti in parte assai romita
e già sparian le saracine tende,
quando ei le disse: "Or di' come a la vita
del pio Goffredo altri l'insidie tende."
Allor colei de la congiura ordita
l'iniqua tela a lui dispiega e stende.
"Son" gli divisa "otto guerrier di corte,
tra' quali il piú famoso è Ormondo il forte.
        Questi (che che lor mova, odio o disegno)
han conspirato, e l'arte lor fia tale:
quel dí ch'in lite verrà d'Asia il regno
tra' due gran campi in gran pugna campale,
avran su l'arme de la Croce il segno,
e l'arme avranno a la francesca; e quale
la guardia di Goffredo ha bianco e d'oro
il suo vestir, sarà l'abito loro.
        Ma ciascun terrà cosa in su l'elmetto
che noto a i suoi per uom pagano il faccia.
Quando fia poi rimescolato e stretto
l'un campo e l'altro, elli porransi in traccia,
e insidieranno al valoroso petto
mostrando di custodi amica faccia;
e 'l ferro armato di veneno avranno,
perché mortal sia d'ogni piaga il danno.
        E perché fra' pagani anco risassi
ch'io so vostr'usi ed arme e sopraveste,
fèr che le false insegne io divisassi;
e fui costretta ad opere moleste.
Queste son le cagion che 'l campo io lassi:
fuggo l'imperiose altrui richieste;
schivo ed aborro in qual si voglia modo
contaminarmi in atto alcun di frodo.
        Queste son le cagion, ma non già sole."
E qui si tacque, e di rossor si tinse
e chinò gli occhi, e l'ultime parole
ritener volle e non ben le distinse.
Lo scudier, che da lei ritrar pur vòle
ciò ch'ella vergognando in sé ristrinse,
"Di poca fede," disse "or perché cele
le piú vere cagioni al tuo fedele?"
        Ella dal petto un gran sospiro apriva,
e parlava con suon tremante e roco:
"Mal guardata vergogna intempestiva,
vattene omai, non hai tu qui piú loco;
a che pur tenti, o in van ritrosa, o schiva,
celar co 'l fuoco tuo d'amor il foco?
Debiti fur questi rispetti inante,
non or che fatta son donzella errante."
        Soggiunse poi: "La notte a me fatale
ed a la patria mia che giacque oppressa,
perdei piú che non parve; e 'l mio gran male
non ebbi in lei, ma derivò da essa.
Leve perdita è il regno, io co 'l regale
mio alto stato anco perdei me stessa:
per mai non ricovrarla, allor perdei
la mente, folle, e 'l core e i sensi miei.
        Vafrin, tu sai che timidetta accorsi,
tanta strage vedendo e tante prede,
al tuo signor e mio, che prima i' scorsi
armato por ne la mia reggia il piede;
e chinandomi a lui tai voci porsi:
`Invitto vincitor, pietà, mercede!
non prego io te per la mia vita: il fiore
salvami sol del verginale onore.'
        Egli, la sua porgendo a la mia mano,
non aspettò che 'l mio pregar fornisse:
`Vergine bella, non ricorri in vano,
io ne sarò tuo difensor' mi disse.
Allor un non so che soave e piano
sentii ch'al cor mi scese e vi s'affisse,
che serpendomi poi per l'alma vaga,
non so come, divenne incendio e piaga.
        Visitommi poi spesso e 'n dolce suono
consolando il mio duol, meco si dolse.
Dicea: `L'intera libertà ti dono'
e de le spoglie mie spoglia non volse.
Oimè! che fu rapina e parve dono,
ché rendendomi a me da me mi tolse.
Quel mi rendé ch'è via men caro e degno,
ma s'usurpò del core a forza il regno.
        Mal amor si nasconde. A te sovente
desiosa chiedea del mio signore.
Veggendo i segni tu d'inferma mente:
`Erminia,' mi dicesti `ardi d'amore.'
Io te 'l negai, ma un mio sospiro ardente
fu piú verace testimon del core;
e 'n vece forse della lingua, il guardo
manifestava il foco onde tutt'ardo.
        Sfortunato silenzio! avessi almeno
chiesta allor medicina al gran martire,
s'esser poscia dovea lentato il freno,
quando non giovarebbe, ai mio desire.
Partimmi in somma, e le mie piaghe in seno
portai celate e ne credei morire.
Al fin cercando al viver mio soccorso,
mi sciolse amor d'ogni rispetto il morso;
        sí ch'a trovarne il mio signor io mossi
ch'egra mi fece e mi potea far sana.
Ma tra via fero intoppo attraversossi
di gente inclementissima e villana.
Poco mancò che preda lor non fossi,
pur in parte fuggimmi erma e lontana;
e colà vissi in solitaria cella,
cittadina de' boschi e pastorella.
        Ma poi che quel desio che fu ripresso
molti dí per la tema anco risorse,
tornarmi ritentando al loco stesso,
la medesma sciagura anco m'occorse.
Fuggir non potei già, ch'era omai presso
predatrice masnada e troppo corse.
Cosí fui presa, e quei che mi rapiro
Egizi fur ch'a Gaza indi se 'n giro,
        e 'n don menàrmi al capitano, a cui
diedi di me contezza, e 'l persuasi
sí ch'onorata e inviolata fui
quei dí che con Armida ivi rimasi.
Cosí venni piú volte in forza altrui,
e me 'n sottrassi. Ecco i miei duri casi.
Pur le prime catene anco riserva
la tante volte liberata e serva.
        Oh, pur colui che circondolle intorno
a l'alma, sí che non fia chi le scioglia,
non dica: `Errante ancella, altro soggiorno
cércati pure,' e me seco non voglia;
ma pietoso gradisca il mio ritorno
e ne l'antica mia prigion m'accoglia!"
Cosí diceagli Erminia, e insieme andaro
la notte e 'l giorno ragionando a paro.
        Il piú usato sentier lasciò Vafrino,
calle cercando o piú securo o corto.
Giunsero in loco a la città vicino
quando è il sol ne l'occaso e imbruna l'orto,
e trovaron di sangue atro il camino;
e poi vider nel sangue un guerrier morto
che le vie tutte ingombra, e la gran faccia
tien volta ai cielo e morto anco minaccia.
        L'uso de l'arme e 'l portamento estrano
pagàn mostràrlo, e lo scudier trascorse;
un altro alquanto ne giacea lontano
che tosto a gli occhi di Vafrino occorse.
Egli disse fra sé: "Questi è cristiano."
Piú il mise poscia il vestir bruno in forse.
Salta di sella e gli discopre il viso,
ed: "Oimè," grida "è qui Tancredi ucciso."
        A riguardar sovra il guerrier feroce
la male aventurosa era fermata,
quando dal suon de la dolente voce
per lo mezzo del cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
accorse in guisa d'ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
non scese no, precipitò di sella;
        e in lui versò d'inessicabil vena
lacrime e voce di sospiri mista:
"In che misero punto or qui mi mena
fortuna? a che veduta amara e trista?
Dopo gran tempo i' ti ritrovo a pena,
Tancredi, e ti riveggio e non son vista:
vista non son da te benché presente,
e trovando ti perdo eternamente.
        Misera! non credea ch'a gli occhi miei
potessi in alcun tempo esser noioso.
Or cieca farmi volentier torrei
per non vederti, e riguardar non oso.
Oimè, de' lumi già sí dolci e rei
ov'è la fiamma? ov'è il bel raggio ascoso?
de le fiorite guancie il bel vermiglio
ov'è fuggito? ov'è il seren del ciglio?
        Ma che? squallido e scuro anco mi piaci.
Anima bella, se quinci entro gire,
s'odi il mio pianto, a le mie voglie audaci
perdona il furto e 'l temerario ardire:
da le pallide labra i freddi baci,
che piú caldi sperai, vuo' pur rapire;
parte torrò di sue ragioni a morte,
baciando queste labra essangui e smorte.
        Pietosa bocca che solevi in vita
consolar il mio duol di tue parole,
lecito sia ch'anzi la mia partita
d'alcun tuo caro bacio io mi console;
e forse allor, s'era a cercarlo ardita,
quel davi tu ch'ora conven ch'invole.
Lecito sia ch'ora ti stringa e poi
versi lo spirto mio fra i labri tuoi.
        Raccogli tu l'anima mia seguace,
drizzala tu dove la tua se 'n gio."
Cosí parla gemendo, e si disface
quasi per gli occhi, e par conversa in rio.
Rivenne quegli a quell'umor vivace
e le languide labra alquanto aprio:
aprí le labra e con le luci chiuse
un suo sospir con que' di lei confuse.
        Sente la donna il cavalier che geme,
e forza è pur che si conforti alquanto:
"Apri gli occhi, Tancredi, a queste estreme
essequie" grida "ch'io ti fo co 'l pianto;
riguarda me che vuo' venirne insieme
la lunga strada e vuo' morirti a canto.
Riguarda me, non te 'n fuggir sí presto:
l'ultimo don ch'io ti dimando è questo."
        Apre Tancredi gli occhi e poi gli abbassa
torbidi e gravi, ed ella pur si lagna.
Dice Vafrino a lei: "Questi non passa:
curisi adunque prima, e poi si piagna."
Egli il disarma, ella tremante e lassa
porge la mano a l'opere compagna,
mira e tratta le piaghe e, di ferute
giudice esperta, spera indi salute.
        Vede che 'l mal da la stanchezza nasce
e da gli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha fuor ch'un velo onde gli fasce
le sue ferite, in sí solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
e di pietà le insegna insolite arti:
l'asciugò con le chiome e rilegolle
pur con le chiome che troncar si volle,
        però che 'l velo suo bastar non pote
breve e sottile a le sí spesse piaghe.
Dittamo e croco non avea, ma note
per uso tal sapea potenti e maghe.
Già il mortifero sonno ei da sé scote,
già può le luci alzar mobili e vaghe.
Vede il suo servo, e la pietosa donna
sopra si mira in peregrina gonna.
        Chiede: "O Vafrin, qui come giungi e quando?
E tu chi sei, medica mia pietosa?"
Ella, fra lieta e dubbia sospirando,
tinse il bel volto di color di rosa:
"Saprai" rispose "il tutto, or (te 'l comando
come medica tua) taci e riposa.
Salute avrai, prepara il guiderdone."
Ed al suo capo il grembo indi suppone.
        Pensa intanto Vafrin come a l'ostello
agiato il porti anzi piú fosca sera,
ed ecco di guerrier giunge un drapello:
conosce ei ben che di Tancredi è schiera.
Quando affrontò il circasso e per appello
di battaglia chiamollo, insieme egli era;
non seguí lui perché non volse allora,
poi dubbioso il cercò de la dimora.
        Seguian molti altri la medesma inchiesta,
ma ritrovarlo avien che lor succeda.
De le stesse lor braccia essi han contesta
quasi una sede ov'ei s'appoggi e sieda.
Disse Tancredi allora: "Adunque resta
il valoroso Argante a i corvi in preda?
Ah per Dio non si lasci, e non si frodi
o de la sepoltura o de le lodi.
        (from the Gerusalemme Liberata by Torquato Tasso)

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