Vorrei aggiungere poche e ULTIME righe. Io non conosco l'arabo ne' sono
un linguista di professione, anche se a suo tempo ho studiato, con
passione, filologia romanza sotto la guida di Aurelio Roncaglia alla
Sapienza di Roma. Ora a me sembra che queste forme di cui stiamo
parlando, usate prevalentemente (ma non esclusivamente) nell'Italia
meridionale, sia pure forse mediate dal provenzale, che indubbiamente
esercita una massiccia influenza, p.e., nella scuola siciliana, siano
infine tutte da ricondurre al latino, lingua-madre di qualsiasi
ur-espressivita' poetica proto-italiana (provenzale compreso),
corrispondente, tuttavia, a una evidente polarita' classistica: latino
alto e latino "volgare", configurandosi, quest'ultimo, "come meno uno stato
di lingua che il senso di un'evoluzione" (Roncaglia; cito da
Pasquini-Quaglio, "Le origini", Laterza, 1975, ii ediz.). Quando noi
leggiamo nel "Contrasto" di Cielo d'Alcamo forme parlate come "patreto" e
"pa(t)remo" (e nel napoletano forme affini come "mammeta", "frateto",
"soreta", ecc.), posso sbagliarmi ma il mio buon senso mi suggerisce che
qui e' avvenuto una plausibile mescidazione del latino volgare in
proto-italiano volgare : pater (gen. patris) > patre meu(s) > patre meu >
patremu > patremo;
soror tua (dimin. "sorella", come lo e' "fratello" per "frate" ), > sore
t(u)a > soreta ( in certe forme strette, detto anche con la "e" quasi muta,
"sor(e)ta", ecc. ecc.
Luigi Fontanella
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